mercoledì 26 ottobre 2016

Il word processing, la luce e la voce

  
 
Copertina di Track Changes di Matthew Kirschenbaum
Dal punto di vista storico, il lavoro di ufficio ha spesso avuto una forte componente vocale. Anzi, che le persone importanti (tipo i dirigenti di un’azienda) possano scrivere da sole su una tastiera è un’idea molto recente, nata all’inizio degli anni Ottanta negli Stati Uniti e diffusasi solo con l’avvento dell’informatizzazione. Fino quel periodo, per un dirigente usare una tastiera rappresentava una degradazione sociale: un ridursi al rango di segretaria. Un po’ più tollerata era la scrittura a mano, ma l’unica forma di comunicazione davvero dignitosa era quella orale. “Scrivere” una lettera, nella logica di un dirigente, significava dettarla.
 
Qualche ricordo di quel periodo si trova all’interno di un bel libro di Matthew G. Kirschenbaum, Track Changes, di cui sto parlando a parte su un altro blog. Il centro di interesse del libro è il modo in cui gli scrittori hanno iniziato ad adottare il word processor, ma nel ricostruire questa storia l’autore deve parlare spesso del contesto.
 
In retrospettiva, del resto, uno degli aspetti più curiosi della storia dell’informatica è stata la difficoltà ad accettare l’idea scrivere su uno schermo. “The iconic conjunction of a cathode ray or video display and typewriter has a much more tangled history than many of us realize”, dice Kirschenbaum (p. 120), che se ne occupa nel sesto capitolo del suo libro. Non potrei essere più d’accordo. Come ho cercato di raccontare in altre occasioni, l’avvento questa idea fu graduale e sorprendentemente tardo.
 
Storicamente, la “madre di tutte le demo” di Douglas Engelbart, nel dicembre 1968, rappresentò uno spartiacque e mostrò per la prima volta le possibilità della videoscrittura. Come ricorda Kirschenbaum, uno degli spettatori della demo di Engelbart fu Andy van Dam, che iniziò a collaborare sulla videoscrittura con Ted Nelson, teorico dell’ipertesto (p. 121); un altro pioniere ispirato da Engelbart fu Larry Nelson, così come Douglas Hofstadter. Poi Kirschenbaum cita Charles Simonyi, l’informatico ungherese creatore di uno dei primi programmi di videoscrittura e poi di Word, con una delle sintesi più belle che mi sia mai capitato di sentire: “‘In retrospect it all [la videoscrittura] seems so obvious. Uh-uh, it wasn’t obvious to anyone” (p. 124).
 
Chi iniziò a occuparsi di scrittura sul video correva notevoli rischi professionali (p. 125). Tuttavia, è evidente che far comparire le parole su uno schermo produceva un’impressione profonda: tra gli scrittori citati nel libro lo ricorda esplicitamente per esempio Peter Straub. La “scrittura con la luce” (p. 46) aveva insomma fascino. I lavori andarono quindi avanti, e nel giro di pochi anni si iniziò a parlare di WYSWYG (p. 126). Nel 1974 Larry Tesler, insieme ad altri, iniziò a sviluppare un’interfaccia senza modalità (mode) per i computer Bravo. Secondo Tesler questo fu il primo prodotto a funzionare come un programma di scrittura moderno (p. 127). Negli anni successivi, Bonnie McBird, che poi sposò Alan Kay, scrisse con l’interfaccia Gypsy la sceneggiatura del film Tron (pp. 127-131).
 

Ma mentre gli sperimentatori andavano avanti, il mondo delle aziende sposava un altro concetto, completamente basato sulla voce e sulla carta (per la carta, Kirschenbaum cita non solo Sellen e Harper, ma anche il film promozionale di Jim Henson The Paperwork Explosion). Quello era il mondo del “word processing”, etichetta che probabilmente venne usata per la prima volta negli USA nel 1970 secondo una definizione che “includes the concepts of both dictation and typing, utilizes the language of centralization, efficiency, and flow, and compares word processing to what Henry Ford’s assembly line did for automobiles”. Tuttavia, il termine sembra nato da un’interazione “between one of IBM’s German sales executives, Ulrich Steinhilper, and an American counterpart, Samuel J. Kalow” (p. 174). Quest’ultimo sosteneva che un dirigente doveva usare solo due macchine: il telefono e il dittafono (p. 175).
 
Da parte sua, Steinhilper aveva già dal 1955 pensato al textverarbeitung come uno dei due percorsi, assieme all’elaborazione dati, che nascevano dal pensiero e portavano alla realizzazione rispettivamente di testi o di dati. Alla fine, entrambi i percorsi dovevano unirsi sotto il marchio IBM! Steinhilper studiò nella sede della Merceds a Stoccarda il costo della produzione di comunicazioni scritte e lo giudicò tanto alto da giustificare l’acquisto di attrezzature dedicate. All’interno della IBM, nel frattempo, si parlava già di “text processing”, definizione preferita a quella di “word processing”. L’obiettivo finale, comunque, era la carta (p. 176).
 
Questa è la storia che Kirschenbaum racconta soprattutto nel cap. 7 del suo libro, prendendo un punto di partenza insolito, il poeta Wendell Berry. Quest’ultimo pubblicò nel 1987 una lista delle ragioni per cui non intendeva usare il computer: una di queste ragioni era il fatto che i suoi manoscritti venivano già efficientemente ribattuti e corretti dalla moglie! Per questa osservazione, Berry fu (comprensibilmente) criticato e deriso. Tuttavia, l’episodio spinge a distinguere i diversi tipi di lavoro al computer. Scrivere non è solo “composition” ma anche “typing and retyping, to say nothing of the work of correspondence and copying, of filing and bookkeeping, and so forth” (p. 140), e ci si può chiedere chi sia a svolgere questi lavori.
 
Alla fine degli anni Settanta le “killer app” disponibili su computer erano il programma di scrittura e il foglio di calcolo (a partire da VisiCalc, 1979, per Apple II). Gli utenti del foglio di calcolo venivano visti come uomini. “By contrast, the word processor was imagined from the outset as an instrument of what labor and technology historian Juliet Webster has termed ‘women’s work’” (p. 141). Lo stesso era successo per la macchina da scrivere, che però alla fine aveva portato nell’immaginario visivo due figure molto diverse: non solo la segretaria, ma anche lo scrittore di hardboiled. Programmi come Gypsy, invece, erano stati esplicitamente pensati per segretarie. Jeannette Hoffman ha notato che sistemi di videoscrittura come i Wang si basavano su schemi predefiniti di lavoro (un lavoro compartimentalizzato e alienato) e avevano livelli diversi di autorizzazione: una poesia di Patricia Freed Ackerman scritta su un word processor Wang (p. 143) è un buon esempio dei sentimenti che un lavoro di questo genere poteva suscitare.
 
I programmi di scrittura sembravano promettere un approccio diverso. Tuttavia, le prime versioni di WordStar, WordPerfect o Perfect Writer si basavano su un gran numero di comandi non intuitivi e avevano una ripida curva di apprendimento. Erano, insomma, strumenti per chi faceva il “word processor” di mestiere. Secondo Jeannette Hoffman, solo per l’adozione delle interfacce grafiche mise fine a questa impostazione.
 
In ufficio, tutto questo si inseriva all’interno di un paradigma preciso: quello che gli studiosi di management definivano “l’ufficio del futuro” (pp. 143-149). Uno degli obiettivi di questa impostazione era quello di ridurre le perdite di tempo e “razionalizzare” le attività dei lavoratori. Di qui l’idea di una totale divisione del lavoro basata su centri specializzati nel word processing. Per evitare che le segretarie perdessero tempo tra un lavoro e l’altro, per esempio, una delle idee più apprezzate all’epoca era quella di far dettare i dirigenti su nastro e spedire poi le registrazioni al centro di word processing.

Tra i pochi a tenere in considerazione in questo periodo il lavoro delle donne fu Evelyn Berzin con la sua Redactron Corporation, fondata nel 1969 (pp. 149-155). I prodotti della Redactron, come il Data Secretary, vennero presentati come strumenti per eliminare i compiti più ripetitivi – per esempio, la battitura di lettere sempre uguali per le spedizioni di massa – e consentire alle segretarie di dedicarsi a quelli più creativi.

La crisi finale della Redactron Corporation, quando avvenne, alla fine degli anni Settanta, non fu legata a scelte femministe ma alla crisi del concetto generale di “word processing” dal punto di vista organizzativo. A sostituirla fu il modello di “office automation” che nel giro di dieci anni avrebbe portato un computer su tutte le scrivanie. A quel punto, “Executives would increasingly be doing their own typing” (p. 153).
 
Tuttavia, il concetto originale di “word processing” non riguardava solo corpi, mani e tastiere. Includeva anche, come anticipato, “the voice and the ear, speaking and listening, dictation and transcription” (p. 155). Prima di essere elaborate le parole dovevano “originate somewhere”, e questo “was assumed to be oral, from the mouth of an executive”. Come nota Thomas Haigh, i sistemi di dettatura venivano spesso venduti assieme a quelli di scrittura, e tutto il concetto di “word processing” “did not refer exclusively, or even primarily, to the use of full-screen video text editing”. I sistemi inventati includevano spedizione di nastri, dettatura per telefono, registratori “tank type” in cui il nastro permetteva alla segretaria di iniziare a sbobinare la registrazione prima ancora che il dirigente avesse finito di dettare, e così via (p. 156). In un episodio del 1960 di The Twilight Zone si vede un famoso autore teatrale che opera unicamente dettando.
 
E d’altra parte, dice Kirschenbaum, “today dictation is once again rising in importance” (p. 158), essendo diventata finalmente usabile - come cerco di raccontare su questo blog. Il più famoso portavoce di queste tecnologie nell’ambito letterario è Richard Powers, che, secondo Kirschenbaum, vede il “word processing” come “fundamentally multimodal, involving speech, pen or stylus, touch, and the keyboard” (p. 159). Com’è ovvio, anche qui condivido completamente l’idea.
 
Matthew G. Kirschenbaum, Track Changes. A Literary History of Word Processing, Cambridge (Massachusetts), Belknap Press, 2016, pp. xvi + 344, € 25, ISBN 978-067441707-6. Letto nella copia della Biblioteca di Lingue e letterature romanze dell’Università di Pisa.
 

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